C'è una frase di Nietzsche che ho letto di recente e che non riesco a togliermi dalla testa che suona più o meno così: <<Poichè lo sgravarsi delle passioni è il massimo tentativo di sollievo, cioè di stordimento da parte del sofferente, il suo narcotico involontariamente desiderato contro ogni sorta di tormento...>> - mentre io credo di essermi inflitto per troppo tempo una disciplina interiore inutile e rigorosa, sempre più simile al tormento intollerabile descritto da Nietzsche.
Sono un introverso - per quanti sforzi faccia non riesco a manifestare facilmente le mie emozioni. L'immagine che ho di me stesso è quella di una molla raccolta su se stessa, soggetta a piccole vibrazioni, a spostamenti minimi. Una massa d'acciaio in cui confluisce e si arresta ciò che sono. Una molla invisibile e indifferente a tutto, che si limita ad accumulare una potente energia elastica.
Credo di avere un bisogno estremo di sgravarmi delle mie passioni, come diceva Nietzsche, e spesso mi chiedo se qualcuno o qualcosa riuscirà prima o poi a rilasciare la mia molla interiore. Forse sto invecchiando o mi sto rincoglionendo, ma comincia a mancarmi la voglia di riflettere su questo problema. Il senso della vita mi ha rovinato spesso i momenti migliori - quelli in cui devi appendere al chiodo tutto quanto e lasciarti andare- anche se detta così sembra una frase da film hollywoodiano.
Che dire? Sono così, una molla raccolta su se stessa. In realtà da mesi lo sono di più, chiuso ancora di più. Forse, come dice Chris, mi sto rincoglionendo o sto solo invecchiando. Sarà sempre peggio o prima o poi mi rilascerò?
In questi giorni ho riascoltato una vecchia canzone, è piena di immagini bellissime, di una romanticità disarmante, ma al tempo stesso di un realismo puro. Chi mi conosce davvero (e non chi dice di conoscermi) vi coglierà me stesso. Non voglio dire che io sia un "fairy boy", ma che spesso posso risultare impalbabile, ma quello che sono è il risultato di quello che mi porto dentro, come il mare e la notte e tutto il resto.
I'd like to sit on the grass for a while
and wear my favourite dress for a while
I'd like to sit on the grass for a while
and wear my favourite dress for a while
You would drive your car and your life to the sea
speaking your mind about all you wanted to be
"Have you ever felt this free in such a small world?
So light that if you'd leave you may not return"
and this way you'd drive us away without words left to say
our souls drowning into the night…
we would know how our secrets were there to be told
I would feel I could be forever
The fairy girl
the fairy girl…
I'd like to sit on the grass for a while
and wear my favourite dress for a while
You'd keep your eyes on me 'till I was asleep
touching my childish face… your last embrace
I loved the air dancing around your hair and my skin
I simply loved it 'til the end from the beginning
and this way I lived and with no "wonder whys"
I came out of the dream that was holding on to you
it's the sweetest dance I ever danced
what I hear is the music that runs through my veins
it is made of the nights, of the sea, of the fields
of the scent of asphalt when it rains
The fairy girl (she's lying on the grass)
The fairy girl (she's lying on the grass)
The fairy girl
The fairy girl...
(Elisa)
Vorrei sedermi sul prato per un po’
E indossare il mio vestito preferito per un po’
Vorrei sedermi sul prato per un po’
E indossare il mio vestito preferito per un po’
Tu guidavi la tua macchina e la tua vita verso il mare
parlando chiaramente di tutto ciò che volevi essere
"Ti sei mai sentita così libera in un mondo così piccolo?
Così leggera che se te ne partissi potresti non ritornare?"
E così ci portavi lontano senza parole da dire
le nostre anime annegavano nella notte
sapevamo come i nostri segreti fossero lì per essere svelati
sentivo di poter essere per sempre
La ragazza spirito…
la ragazza spirito…
Vorrei sedermi sul prato per un po’
e indossare il mio vestito preferito per un po’
Tu tenevi i tuoi occhi su di me finché non mi addormentavo
toccando il mio viso da bambina...il tuo ultimo abbraccio
amavo l’aria che danzava attorno ai tuoi capelli e alla mia pelle
l’ho amata semplicemente dall’inizio alla fine
E così ho vissuto senza chiedermi perché
sono uscita dal sogno che si aggrappava a te
è la danza più dolce che io abbia mai ballato
ciò che sento è la musica che mi scorre nelle vene
è fatta delle notti, del mare, dei campi,
del profumo dell’asfalto quando piove…
La ragazza spirito (se ne sta sdraiata sul prato…)
la ragazza spirito (se ne sta sdraiata sul prato…)
Lo sapevo, me lo sentivo, sono malato! Sapevo che c'era qualcosa in me che non andava, mia mamma me lo ripete da anni. E io che non volevo ascoltarla, cazzo, aveva ragione!
Le amnesie, i momenti di disorientamento spazio-temporale, le crisi di identità..tutto aveva un senso...tutto si può riassumere sotto un'unica parola: DEMENZA.
Sì, sono demente. Ogni tanto mi blocco con lo sguardo perso ed entro in una dimensione sconosciuta ai più, con la faccia da ebete e l'occhio da triglia, meglio orata, è più buona. E vogliamo parlare di quando mi parlano e capisco la metà di quello che mi si dice? Lo sapevo che mettere il cordless in frigo non era normale, però ho giustificato tutto con la distrazione. Oppure quando ho infilato la caffettiera nel forno e ho aspettato per mezz'ora che uscisse il caffè? Erano tutti segnali..altro che "Giorgio stordito".."Giorgio idiota"..."Giorgio pensa a quel che fai...solo una definizione era giusta..."Giorgio DEMENTE".
L'evento che mi ha permesso di aprire gli occhi è avvenuto ieri. Sono uscito per andare a fare ripetizioni. Come sempre portavo con me la mia valigetta sempre troppo pesante per me, le chiavi dell'automobile e una felpina che visto il caldo torrido avrei poi usato come asciugamano. Canticchiando "Comprami" di Viola Valentino (nella versione remix però) giungo nel parcheggio, apro l'auto e, come sempre, metto la mia valigetta sul sedile posteriore. E lì accade qualcosa. L'EVENTO. Non so come, nè perchè, nè sotto quale spinta interna, mi ritrovo seduto dietro aspettando che un fantomatico autista, che battezzerò qui con il nome di Astolfo, mi portasse a fare il mio giro di lezioni. Non so quanto tempo sono rimasto lì ad aspettare, secondi o minuti forse, resta il fatto che quando me ne sono accorto inizio a ridere come un pazzo da solo (credo che questo rietri nei sintomi della suddetta patologia) e "tac" compare il proprietario dell'auto parcheggiata alla sinistra della mia che mi guarda con un enorme punto interrogativo sulla testa, negli occhi (mi è sembrato di vederne uscire anche dalle orecchie). A quel punto non potevo uscire e mettermi alla guida (Astolfo era fuggito con la signora in giallo e Ambrogio), così ho dissimulato fingendo di aspettare che Astolfo finisse i suoi porci comodi triangolari. Solo quando l'ignaro se n'è andato sono sceso e ho deciso che degli Astolfi e degli Ambrogi non ci si può proprio fidare. Lincenziato.
Stabilito l'ambito di patologia ho iniziato a sfogliare i miei libri di psiconeurofisiosticazzilogia, per avere un quadro complessivo della situazione, ed è venuto fuori che di demenze ce ne sono troppe e alla fine si finisce sempre in un letto gridando come pazzi, facendosela sotto e spruzzando il semolino in faccia a chi ci imbocca (potrei scegliere ora chi si sottoporrà alla tortura). Da nessuna parte viene descritta la sintomatologia che ho presentato. Saremo davanti a una forma sconosciuta di demenza? Ho deciso di iniziare gli studi, il campione è un po' ristretto (un solo caso), magari non mi daranno il Nobel, ma di certo alla fine riuscirò a capire che fine ha fatto quel porco di Astolfo.
Mi sono reso conto che sono troppo preso da quello che ho intorno per farmi prendere da quello che ho dentro. Meglio così, in questo modo non mi si potrà accusare di egoismo. Il fatto è che sono molto passivo nei confronti del mondo e di tutto quello che mi accade. Dovrei prendere queste maledette redini per decidere io stesso dove andare, cosa fare, come essere, invece succede sempre che mi ritrovo in situazioni nelle quali mi sento fuori luogo oppure accadono semplicemennte delle cose che mi fanno scivolare dove gli pare, ma io mi chiedo cosa mi preoccupo di essere, di fare, di dire se tanto poi tutto va in un certo senso. Risposta: non lo so.
In questo periodo poi penso tanto a un anno fa, mi sembra tutto ancora terribilmente ingiusto e assurdo. Mi ricordo ancora la telefonata di notte (una specie di sogno) senza capire, oppure avevo capito ma rifiutavo di capire, le notizie a pezzettini in altre telefonate. Poi la corsa in treno per arrivare in tempo, sempre con la speranza che qualcosa sarebbe cambiato. Un viaggio lento e silenzioso, fatto di pensieri e sospiri, solo quelli. E poi la corsa al Policlinico, quanto ho corso, anche col borsone semivuoto a tracolla e che a me sembrava pesantissimo, ma continuavo. E poi la notizia data così freddamente. E io che quasi non respiravo più, deve essere stato un attimo che a me è sembrato lungo un giorno.
E poi le lacrime che non uscivano e invece io volevo piangere perché sentivo che altrimenti mi sarebbe esploso il cuore per tutto quel dolore. E' quel tipo di dolore che non fa male, non si sente male, eppure è dolore, quasi come un'anestesia che però lacera la carne. Ho pianto per un tempo indefinito, non sapevo nemmeno più che ora fosse, mi ricordo che ero arrivato col sole e mi sono ritrovato al buio in un angolo sperduto di quel labirinto fatto di reparti, corsie e barelle. Quanta rabbia verso me stesso per non essere stato più veloce e verso di lei per non avermi aspettato, ce n'è ancora dentro di me di quella rabbia, non mi lascia. Quante domande ho fatto a Dio, sto aspettando ancora le risposte, mi sento in debito.
E poi il bacio tiepido il cui sapore era diverso da tutto quello che avessi mai sentito, e l'abbraccio stretto, forte forte, quasi volessi aggrapparmi a lei per sempre.
E poi tutto il resto:le persone che non conoscevo, ma che si presentavano e che io volevo cacciare, i sussurri, le parole, le frasi che fingevo di non sentire. E poi le parole che ho scritto a notte fonda in ospedale per lei su una busta del pane e che ho messo in tasca.
Non le ho mai dette a nessuno queste cose, me le sono tenute sempre per me, ancora adesso mi sembra quasi un sogno. Le scrivo per me e per far capire chi sono ora, sereve a me stesso per capire.
E poi tutti che mi chiamavano, mi mandavano sms, ed è lì che ti rendi conto che non serve a nulla tutto quel star vicino, che non è un palliativo perché serve solo per farti rendere conto che è tutto vero.
Poi sei senza più lacrime e ti restano solo sorrisi sbiaditi, perchè è l'unico modo che hai per muovere la faccia. Fino a ritrovarti davanti ad una bara che non sai cosa contiene perché ti sei perso il passaggio intermedio. E allora ti chiedi cosa ci stai lì a fare, cosa ci stanno a fare lì tutti gli ipocriti che la stanno calpestando anche da morta, che meriterebbero di stare al suo posto. Quelli che ci sarebbero stati lì quel giorno e poi mai più. Quelli che non hanno mai capito cosa era per me, lei che sapeva di me più di quello che le dicevo (e che mi rimproverava sempre di non dire). Quelli che non sanno niente di lei. Quelli che mi ascoltano in chiesa mentre leggo quello che ho scritto su quella busta del pane e che hanno capito solo la metà di quello che ho detto e piangono solo per un riflesso di questo male marcio che sento dentro.
A volte penso che tutto questo dolore sia come un cancro che mi sta consumando dentro, che mi sta mangiando i sentimenti, così mi alimenterò solo del mio cinismo e della mia cattiveria perchè io, che sono così simile a lei, non voglio che gli altri si comportino con me così come con lei, devo difendermi. Lo devo a lei e se sono qui è solo per lei. Solo per lei. Perché anche se non lo vorrei le assomiglio sempre di più, anzi mi sorprendo come viene fuori di me tutto ciò che era lei. A volte mi ritrovo a fare o dire cose che avrebbe fatto o detto lei, in quel momento mi fermo e mi impressiono di come siamo uguali in modo del tutto naturale e mi chiedo se questo non sia più una punizione per non dimenticare, ma io non voglio dimenticare. Voglio tenere vivo il ricordo, tenere aperta la ferita, anche se fa male e brucia. Il fatto è che anche se lo volessi non potrei mai dimenticare. La memoria non muore. Mai. Come quella canzone che amava tanto e cantava stonando e che ogni volta è un pugno all'anima perchè sembra fatta apposta per parlare a tutti quelli che dicevano di amarla e che invece la uccidono anche ora che non c'è più.
Mi rendo conto solo ora di come in questo anno ho sempre preso il suo ricordo e l’ho tenuto lontano da me perché nel momento stesso in cui parlavo a lei in prima persona mi laceravo nell’anima. Così dal "tu" sono passato al "lei". Invece forse dovrei parlarle davvero e dirle tutto di me anche “quello che non sono stato mai” a costo di ridurmi a brandelli, perchè la memoria non deve morire mai.